
Biasso è un amico. Ci conosciamo ormai da qualche anno e posso dire di averlo sempre apprezzato per il suo approccio alla vita, che è in grado di trasporre perfettamente nel suo Rap. Questa intervista sarebbe dovuta uscire già da qualche settimana, ma per colpa mia non è accaduto. Quando abbiamo fatto l’intervista, infatti, Microdosing, il nuovo EP di Biasso in collaborazione con Tak, doveva ancora uscire. Quando leggerete, quindi, sappiate che Microdosing è già uscito su tutte le piattaforme. Buona lettura, buon viaggio!
Biasso, ribaltiamo un po’ lo schema solito dell’intervista che faccio qui su Blabbazoo, parlami di lavoro e delle tue prime esperienze.
Dopo anni di studio, motoconsegne, e formazioni di ogni tipo l’anno scorso ho ricevuto la prima proposta di lavoro un po’ più concreta da parte della Fondazione Eni Enrico Mattei, in particolare dalla rivista Equilibri Magazine, dove ho fatto un tirocinio di sei mesi cimentandomi un po’ in tutto, dalla correzione delle bozze al montaggio video,fino a realizzare qualche articolo e qualche intervista in maniera relativamente autonoma. Per la prima volta ho percepito uno stipendio che mi ha permesso di vivere bene per qualche mese ma l’esperienza si è interrotta subito dopo il tirocinio perchè mi stavo laureando in magistrale e per essere assunto in modo effettivo avrei dovuto terminare il percorso di studio, cosa che purtroppo con il doppio (triplo con la musica) impegno non sono stato in grado di fare parallelamente in quei mesi.
Nel frattempo si è presentata l’opportunità di fare un laboratorio rap con una Onlus romana di nome Meta (zona appio – latino, Municipio 7) dopo anni di piccole esperienze di volontariato nelle scuole in cui accompagnavo la mia amica Francesca Salmeri nel suo progetto F.Rap che univa rap e filosofia, una ragazza che ho conosciuto durante gli anni di Filosofia alla Sapienza, e che ha dato vita a questo percorso nel 2019 portando a parlare nelle scuole figure del panorama hip hop itlaliano, come Fritz Da Cat, Rancore e Claver Gold dalla spiccata attitudine autoriale. L’idea di fondo che condividevamo era quella di sfruttare la popolarità del rap presso i pischelli di qualsiasi situazione sociale per mostrargli più aspetti e risorse possibili di questa cultura rispetto a quelli che possono trovare nel mainstream. Io venni coinvolto nell’aspetto più creativo del progetto, in qualità di rapper “emergente” che fungeva un po’ da tramite tra i ragazzi e questi rapper già affermati e stimolavo i ragazzi a scrivere e in generale a esprimere la propria creatività attraverso il rap. Il laboratorio che ho gestito da solo quest’anno è la naturale continuazione di quella storia. Si è trattato di un workshop all’interno del centro di formazione giovanile Spazio Incontro Scholè di Villa Lazzaroni in collaborazione con le scuole del quartiere: 8 incontri da due ore ciascuno finalizzati alla divulgazione della cultura hip hop, in particolare della musica rap, intesa come strumento di espressione emotiva e di condivisione, dove 5 ragazzi e ragazze dal background diversissimo fra loro si sono cimentati nei primi rudimenti di beatmaking ma soprattutto nella scrittura in versi sui quattro quarti con l’obiettivo di realizzare un pezzo interamente autoprodotto.
Questo lavoro essendo meno gravoso dal punto di vista del tempo mi ha permesso di conciliare un po’ studio, musica e lavoro. A Settembre ne inizierò un altro nello stesso contesto, questa volta da 15 incontri e a Novembre finalmente dovrei riuscire a laurearmi togliendomi da questo limbo.
Hai fatto una bella esperienza anche come artista e parallelamente sei riuscito a ottenerne un compenso!
C’è uno scrittore che diceva che ciò che tieni per te è perso per sempre, quello che dai agli altri ti rimane o comuqnue sono dei semi che tu getti e in qualche modo vedi prendere vita.
Come tutti provo a lavorare e a costruire il “mio futuro” con tante virgolette perchè da questo punto di vista mi riservo tantissimo tempo da mettere a disposizione degli altri, ma non per uno spiccato senso altruistico mio, ma per una necessità, anche quella penso egoistica, di sapere di vivere meglio il Rap se lo condivido. Il laboratorio è un’esperienza personale che non mi porta a migliorare il Rap, però ho a che fare con altre persone che magari sono alle prime armi e che hanno una spontaneità che mi ricorda l’approccio che avevo anche io. In quelle situazioni sento che la mia passione si rinnova costantemente.
Vedendo ragazzi che provengono da contesti difficili, la gestione della conflittualità era la dimensione che più mi interessava esplorare e su questo si è basata gran parte del lavoro. Volevo capire come catalizzare zone d’ombra e violenza per trasformarle in “potenza”, una potenza che non nuoce agli altri o a te stesso, ma che è generatrice di vita oltre a se stessi. Ritengo il Rap l’unico genere musicale, dopo il metal, il punk e il rock in generale, che riesce a non negare, a non sublimare la violenza, per accollarsela su di sé facendosi filtro di questa violenza e rendendola energia trasformativa per chi lo fa e lo ascolta.
Che ragazzi partecipavano, come si è svolto il laboratorio?
I ragazzi avevano dai 16 ai 18 anni e provenivano da contesti culturali, etnici e sociali molto diversi fra loro. La maggior parte di loro aveva una mentalità già molto proiettata verso la dimensione del lavoro e molto più disincantata rispetto ad un loro coetaneo borghese, spesso con delle situazioni famigliari difficili Tra di loro c’era chi già andava a fare l’elettricista, chi già lavorava come meccanico e anche delle situazioni familiari difficili. Anche solo stare lì, a volte senza sapere bene da dove cominciare seguendo il flusso e l’improvvisazione collettiva è stato bellissimo.
Come ti dicevo il progetto è stato suddiviso in otto incontri. I primi 2 sono stati dedicati a una introduzione storica e culturale sul rap: come è nato e quali erano le condizioni storico-sociali che l’hanno portato a nascere. Nel terzo abbiamo iniziato a provare il microfono e ho chiesto a ciascuno dei ragazzi di rapparmi su una base a loro scelta un loro pezzo o quello di un artista che gli piaceva. Abbiamo ascoltato e sperimentato vari tipi di flow e vari tipi di approcci al beat partendo da pezzi che ci piacevano.
Da lì sono state comprese le caratteristiche specifiche di ogni partecipante. Abbiamo deidicato del tempo allo stare sul microfono e allo stare sul beat, per poi iniziare a ragionare su qualcosa di nostro. La base è stata creata da noi con una Maschine MK3, in maniera molto intuitiva. Una ragazza di nome Rebecca ha poi suonato le tastiere e un ragazzo, Patrick, ha completato le percussioni con un cajon suonato da lui.
Negli ultimi tre o quattro incontri ci siamo concentrati sulla creazione di un testo. L’idea iniziale era quella di arrivare ad un semplice input, partendo da un brainstorming comune, come se fossimo veramente un gruppo. Chiaramente i pezzi non nascono tutti così, anzi forse non esce quasi nessuno così, però abbiamo cercato di trovare un tema o un’emozione che in cui tutti potevamo riconoscerci.
Quindi siamo partiti dalle emozioni negative raccontandoci la cosa che più rispettavamente ci metteva più paura, e da lì ci siamo mossi per costruire questa specie di mostro comune che poi è stato caratterizzato dalla figura del fumo. A partire da questo mostro abbiamo costruito tutto il pezzo con frasi costruite da ogni partecipante. Una parola iniziale introdotta da uno dei ragazzi poteva costutuire l’inizio della barra e la rima magari veniva chiusa da un altro. Una delle ragazze, Rebecca, scriveva in maniera molto poetica e il ritornello l’abbiamo ricavato quasi esclusivamente da una sua poesia.
Il pezzo finale si chiama “Parlare di te” e nel ritornello abbiamo pensato all’immagine della Luna come ascoltatrice del nostro sfogo, intesa come una metafora del foglio bianco. Ci siamo immaginati di parlare a questa luna del mostro che ci attanaglia, che in realtà è anche l’altra faccia della medaglia di noi stessi. Il mostro è anche il nostro amore, il nostro sogno, i nostri desideri che sono spesso le cose da cui siamo più spaventati. Si può andare dalla paura che si ha nel salire sul palco alla dichiarazione di un amore. Sono tutti mostri, come possono essere anche le svolte più grandi della tua vita. A partire da questa ambiguità abbiamo costruito tutto il pezzo il cui soggetto è l’io collettivo del laboratorio che abbiamo deciso di chiamare i “Rappicanti”. Il nome è stato trovato da un ragazzo indiano che si chiama Patrick ed è pensato come un sorta di unione tra la natura e la città. Il pezzo l’ho registrato e cantato io per mera mancanza di tempo. Otto incontri, anche se avessimo iniziato a scrivere dal primo incontro, sono effettivamente pochi.
E quando invece rifletti sui tuoi progetti personali nel Rap, cosa ne esce fuori?
Per tanto tempo ho utilizzato il rap come una dimensione di sfogo e riflessione individuali e non ho mai avuto la pretesa di uscire da nessuna parte. Negli ultimi 4 anni il rapporto è cambiato e il mio progetto forse oggi è più reale nonostante i pochi numeri.
Ho la fortuna di suonare con persone che stimo tanto e che sono veramente amici come Tak (Francesco Sprovieri) e Dario Castelli dei Sinnerman dopo molte esperienze negative in studi a pagamento quando ero più pischello.
Da lì in avanti mi sono giurato che avrei lavorato solo con gente che credeva in me veramente e vicerversa. E’ successo tutto insieme prima incontrando te e Ale (Sandro P) nel 2018 e poi grazie alla convivenza con Dario che a sua volta mi ha presentato Tak.
Quando ci rifletto continuo a pensare che non mi interessa quasi nulla di dove vado, lo faccio come il primo giorno, solo quando ne ho bisogno e ho solo voglia che il rap continui a essere lo specchio più trasparente dal quale possa guardarmi.
Se arrivo anche solo a un’altra persona che mi ascolta veramente per me è già una vittoria.
Avevi detto che sarebbe uscito il nuovo progetto con Tak, giusto (N.D.R. è uscito il 13 luglio)?
Con Tak abbiamo fatto un secondo album anche se mi piace dire che è un EP perchè è composto di 11 tracce veramente corte giocate tutte sul concetto di Microdosing.
Questo progetto segue il mastodontico “Dio non parla mai in città”, composto da dieci tracce dai tre ai cinque minuti molto serrate. “Dio non parla mai in città” è un album a cui siamo affezionati. Essendo stato un parto lungo due anni, quando ci siamo rimessi a lavoro ci siamo detti che si poteva fare qualcosa un po’ più di getto, scremando un pò sia i suoni che i testi. Abbiamo capito tante scelte inessenziali a livello di suoni o di pause. Risentendolo a distanza di tempo c’è una specie di horror vacui che permea tutto quel disco.
All’epoca (2019 quando abbiamo iniziato a scriverlo) ero in fissa con tutte una serie di tematiche, anche di carattere teologico. Magari sembra strano dirlo rispetto al Rap, soprattutto italiano, però in quel momento ero interessato a portare una specie di teologia negativa e infernale che rappresentasse il contesto urbano, in particolare romano, e per quello la scelta del titolo “Dio non parla mai in città”, ispirata da un capitolo del Maestro e Margherita di Bulkakov, uno dei libri preferiti di chiunque l’abbia letto che parla appunto della figura di questo diavolo che arriva in città e crea scompiglio.
Si tratta di un diavolo sui generis che in realtà è alleato del Dio pensato da Bulgakov; un diavolo a difesa dell’ordine divino (e quindi umano) contro la superbia umana del Partito Comunista che nel suo razionalizzare tutto, mira a negare ogni forma di spiritualità.
Si tratta di un ritratto del panorama umano di quella società, ma non solo. Il razionalismo scientifico di quella società è lo stesso che in forme diverse viviamo anche oggi.
Partendo da questa mia esigenza, anche politica se vogliamo, nell’ingenuità dei miei 23-24 volevo fare con il rap quello che Bulgakov aveva provato a fare con la letteratura: liberare il linguaggio (almeno il mio) e l’immaginazione dal giogo del potere. Ed è un’ingenuità che mantengo intatta nonostante le smentite della cosiddetta “realtà”.
Ciò che interessa a me del rap è sempre stata la capacità di picconare col linguaggio la propria realtà per aprirla. Nel rap di oggi sento invece una forte legittimazione dello status quo e questo mi ha portato a una disaffezione nei confronti della scena soprattutto italiana.
Dopo questo album abbiamo deciso di concederci un pò di sperimentazione. C’era voglia di vedersi in studio e buttare giù nello stesso giorno un pezzo o un’idea di pezzo insieme, lavorando in maniera sincrona senza dividere la catena di montaggio.
In quel periodo sono nati molti testi in studio sia mentre lavoravo come Speedy. Mentre facevo le consegne scrivevo tantissimo nei tempi morti. Avendo sempre poco tempo erano tutti pezzi da un minuto o al massimo un minuto e mezzo. Erano testi che arrivavano più al punto in meno tempo. Il nuovo disco è nato un po’ così.
Ci siamo detti con Tak “Potremmo fare una sorta di EP a due facce: una di pezzi microdosati (quindi avevo pensato subito di estendere quel concetto a tutto l’album) e un’altra di sviluppo di quelle piccole idee con meno tracce ma più organiche”. Poi Microdosing ha preso il sopravvento e si è concretizzato come progetto singolo.
Si tratta undici tracce e lo sentiamo come un EP perchè sono tutte tracce piccole. Si basa tutto sull’essenzialità quindi non ci sono pezzi troppo a cazzeggio. Sono tutti belli deep o comunque con il mio tipo di immaginario, che non è mai leggero. Sicuramente sono tracce più fruibili e immediate, che giocano molto sulla disattenzione delle persone e sul formato dei 60 secondi dei Reel pur mantenendo quella sostanza e quella ciccia nei pezzi miei e di Tak. A livello di suono è un album rude ma con aperture armoniche più ariose e una semplicità di suoni maggiore.
Tu come riesci a vederti nel futuro, come professionista nel settore musicale o qualcosa di diverso?
A quasi 30 anni ancora non ti so rispondere.
In questi anni ho tenuto aperte così tante porte che la confusione mi divora.
Per quanto riguarda la musica non so se ho più paura di farcela o di non farcela. Mi sono preso così tanto tempo prima di avere un minimo di consapevolezza di quello che stavo facendo, che il Rap ha già attraversato tante fasi della mia vita (scrivo da quando ho 16 anni e adesso ne ho 29). Si tratta di 13 anni in cui questa cosa ha avuto significati diversi, ma in realtà il substrato è sempre stato qualcosa di molto intimo.
Mi verrebbe da dire la solita banalità che il Rap ha un valore terapeutico, ma in realtà forse non è così, perché la solitudine nello scrivere a volte ti rende più solitario e più chiuso per certi versi. Sia che dovessi farne un lavoro, sia che non dovessi farcela, il rap rimarrà sempre una necessità interna che cercherò sempre di mettere in connessione ai contesti e alle persone che mi affascinano di più.
La dimensione di ogni cosa che faccio per me non è mai totalmente individuale e la mia passione per questa cosa è un po’ la somma di tutti gli artisti che mi hanno fatto innamorare, dei libri che ho letto, dei dialoghi che mi sono segnato. Devo tutto quello che scrivo alle esperienze che ho fatto e alle persone che ho ammirato e quindi per me il rap è solo un flusso ordinato di cose importanti da non scordare. Un album di tante fotografie della tua vita che però si sviluppano di continuo ma anche un continuo fare il punto del proprio stato emotivo.
Per quanto riguarda il cosiddetto “successo” penso che ci possano essere delle vie di mezzo: fare live e aumentare gradualmente il tuo bacino, avere uno spazio tuo che non è privato ma a disposizione degli altri e da questo punto di vista prima ti dicevo della paura di farcela. È ovvio che dirlo così, quando non sei nessuno, è facile perché non hai la controprova e può sembrare un discorso presuntuoso. Ma la dimensione della fama, il fare le “cose in grande”, vedendola da fuori mi terrorizza. Siamo abituati al binomio successo:fallimento quando tanta gente in realtà è realizzata in maniera magari più modesta, ma più reale. C’è gente forte che suona in tutta Italia in centri piccoli e magari viene ricordata dalle persone di ogni paese o città in cui va e questo per me è già “successo”. Un fenomeno del web come Young Signorino, finisce sulla bocca di tutta l’Italia per un anno e poi viene sputato dopo aver fatto 3 live in vita sua (e sto parlando di uno dei più originali nel mainstream). Fare esperienze reali, girare, conoscere le persone e avere uno scambio, poi il resto è tutto di guadagnato.
Non c’è una via facile, perchè entrambe le dimensioni sono piene di scomodità. L’outsider ha poco supporto, l’artista affermato ne ha anche troppo.
L’unica cosa che so è che accanto a me ho bisogno di persone vere e dentro di me di privacy, oggi più che mai. Non riesco davvero ad immaginare come fa un essere umano nel 2023 a gestire una cosa come la fama. Di sicuro avere un percorso solido alle spalle può aiutare ad affrontare tutto con maggior consapevolezza ma bisogna avere una forza interiore straordinaria per non perdersi.
L’esperienza ha senz’altro un valore elevatissimo, portarla in giro trasmettendo i propri valori e ricevendo indietro dal confronto, apre scenari interessanti…
Quella è la mia idea di Rap, un Rap che non sia fine a se stesso. A me interessa quello che questa musica veicola in termini di sentimenti, di valori, di messaggi e non è mai qualcosa di stantio ma qualcosa che si evolve.
Allo stesso tempo è importante riconnettersi con le origini delle cose. Arrivare a essere consapevoli del perché nasce una cosa, contribuire alla consapevolezza delle persone che vivono inscatolate sempre più in un mondo a compartimenti stagni che semplifca tutto e in cui è difficile rendersi conto delle relazioni tra le cose stesse.
Mi interessa partire dal Rap per arrivare a qualcosa che unisce di più del Rap.
Sicuramente l’esperienza del laboratorio mi ha dato più felicità e consapevolezza di qualsiasi altra che ho fatto. Anche rispetto al contest di “It’s the Joint” che avevo vinto nel 2020,e che è stata l’emozione più grande dal punto di vista prettamente personale, considerato che mi ha dato la possibilità di suonare con Danno, uno dei rapper a cui sono più legato da quando ero piccolo.
In generale mi dispiacerebbe vivere una vita in cui penso solamente a produrre le mie rime e a darle a un produttore e a un discografico per farle uscire. Poi certo magari più cresci più hai la possibilità di arrivare a più persone ma arrivare a un pubblico di massa può comportare il perdere contatto con le persone che hai più vicino e che sono più importanti per te. Bisogna avere un minimo di contezza di tutte queste cose e di volta in volta dire dei sì e dei no in ogni ambito della vita. C’è sempre un bilancio, un equilibrio da trovare tra le tue ambizioni personali che a volte ti portano anche fuori da te stesso, e i tuoi bisogni, le cose che ti fanno stare bene che a volte hai sotto il naso e sono le cose più importanti. In un mondo in cui tutti chiediamo sempre più attenzione e siamo sempre meno disposti a prestarla avere una vita a misura umana è il mio unico obiettivo in questo momento.
Che ci vuoi fare con i tuoi pensieri, con il tuo Rap? Vuoi farci la rivoluzione o altro?
Si possono gettare dei semi. Pensare di rovesciare il mondo è un pensiero che per me provoca della violenza. Ogni tipo di rivoluzione, anche con i più nobili fini, è destinata a sopprimere una parte e se ogni rivoluzione è naufragata o irrigidita in un nuovo status quo qualcosa vorrà anche dire. Gli esseri umani sono pieni di manie di grandezza. Se non si riesce ad avere una visione che abbracci anche i vinti delle tue battaglie, allora sarai sempre un tiranno verso la realtà di qualcun altro e questo rende vana ogni idea di giustizia. Non puoi rovesciare Instagram, non puoi rovesciare l’America, e nemmeno la Russia di Putin. Puoi fare però un lavoro su di te e sulle persone intorno a te e farti aiutare dagli altri. Ampliare la tua immaginazione e il tuo rapporto con la vita, arricchirlo e andare oltre all’evidenza che il mondo fa schifo. Che poi, se devo dirla tutta, forse è un’illusione anche questa. Noi apparteniamo sempre comunque a qualcosa di più grande che per qualche ragione ha voluto che finissimo in questo mondo, in questo tempo e a questo stadio evolutivo. Possiamo lavorare sodo solo sul nostro mondo. Per quanto riguarda il mondo in generale è per me un concetto vuoto e fuorviante che porta le persone a vivere di fantasmi e frustrazioni ed è proprio questo distacco da ciò di cui siamo in potere che per me rende la gente di oggi così inerme e spettatrice.
Mi sono innamorato del rap proprio per questa capacità di connettere il singolo alla collettività e di renderti protagonista del tuo mondo.
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Ora che certamente sarete più connessi con voi stessi, vi lascio i link per restare connessi anche con Biasso!
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